Novembre, commemorazione dei defunti: qualche ”provocazione” biblica.

«È meglio andare nella casa del lutto che nella casa della festa, perché quella è la fine di ogni uomo e chi vive vi potrà riflettere … Il cuore del saggio è in una casa di lutto, ma il cuore degli stolti è in una casa di festa … Nel giorno della prosperità sii allegro, ma nel giorno dell’avversità, rifletti» (Qohelet 7:2.4.14). Diceva così un saggio vissuto oltre duecento anni prima di Cristo, le cui riflessioni sulla condizione umana ci sono state tramandate dal libro dell’Antico Testamento che porta il suo nome (in alcune versioni della Bibbia è chiamato “Ecclesiaste”, che rende l’ebraico “Qohelet”, ovvero qualcuno che si rivolge ad un uditorio).

Qohelet ricordò altresì che ogni essere umano lascia prima o poi questo mondo «nudo com’era venuto, com’era uscito dal grembo di sua madre» (5:15). Così facendo, egli echeggiò il detto di Giobbe 1:21: «Nudo sono uscito dal grembo di mia madre e nudo vi ritornerò: il Signore ha dato, il Signore ha tolto…». E Giobbe, a sua volta, aveva ripreso l’eterno principio posto fin dalla Creazione, che caratterizza la nostra esistenza sulla terra: «Tu sei polvere, e in polvere ritornerai» (Genesi 3:19).

Nel Nuovo Testamento, l’apostolo Paolo espresse con queste sue parole il medesimo concetto: «Non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portarne via». Lo scopo era di esortare alla sobrietà: «Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, saremo di questo contenti» (1a Lettera a Timoteo 6:7-8). 

Ricordarci dei nostri cari e di tutti coloro che non ci sono più (che non sono più sulla Terra) va bene, ma attenzione: l’enfasi dovrebbe essere posta prima di tutto sulla nostra condizione, su di noi che ancora siamo qui. Dovremmo riflettere sulla nostra vita, sul nostro modo di essere e di comportarci, sui nostri valori e obiettivi, su ciò a cui diamo veramente peso, su ciò che lasceremo come eredità morale e spirituale. E, dunque, sul nostro rapporto con Dio, che volenti o nolenti condiziona ogni aspetto della nostra vita.

Un brano del Vangelo di Luca (9:59-60) riferisce che un giorno Gesù invitò un uomo dicendogli «seguimi!», ma quel tale rispose: «Signore, permettimi prima di andare a seppellire mio padre». Richiesta comprensibilissima, certo, ma se il Qohelet sapeva provocarci, ebbene, Gesù sapeva addirittura scandalizzarci. La sua risposta fu infatti: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti, ma tu va ad annunciare il regno di Dio». La frase è sulle prime enigmatica. Parrebbe quasi che Gesù non apprezzasse il desiderio di un figlio che intendeva dare una degna sepoltura e il dovuto onore al proprio padre defunto. Ma di certo non era così…

E allora, che cosa volle insegnarci il Signore? Evidentemente egli sapeva che, spesso, ricordarsi dei defunti, anche se devotamente e affettuosamente, può diventare un modo per pensare più a loro che a noi stessi, alle nostre responsabilità, al nostro legame con Dio e ai nostri doveri nei suoi confronti. E il problema è questo: se sbagliamo prospettiva, allora i veri «morti» siamo noi («lascia che i morti seppelliscano i loro morti»): morti perché di fatto lontani da noi stessi, dall’unica cosa che conta («che giova all’uomo se guadagna tutto il mondo e poi perde la propria anima?», disse ancora Gesù (Vangelo di Matteo 16:26). Lontani, anche, dal senso del peccato (parola fuori moda, ormai…) e da ogni stimolo di ravvedimento e conversione, scivolando sconsideratamente verso la nostra fine terrena… 

«Povero morto», si dice spesso, e dunque ci riferiamo altrettanto di frequente ai morti dicendo «povero Mario, povera Lucia…». Ma chi è veramente «povero»? Attenzione: infatti capita più spesso di quanto si creda che chi dice «povero morto» sia più «povero» del morto!

Tutti abbiamo ascoltato o letto almeno una volta la parabola detta “del figliol prodigo” (cioè scialacquatore), il quale, allontanatosi dalla casa del Padre, dopo aver sperperato tutti i suoi beni, ed essendo sprofondato nell’insensatezza e nel degrado, «rientrò in sé» (ossia fece un serio esame di coscienza, considerò la sua triste condizione, si pentì) e tornò dal Padre, che di lui disse: «Era morto ed è tornato in vita» (Vangelo di Luca 15:32). Fisicamente quel figlio era rimasto sempre in vita, ma dentro di sé era «morto» e, dunque, aveva avuto bisogno di rinascere. Il vero problema è sempre quello di essere vivi da vivi, e la «casa del lutto» deve aiutarci a riflettere su noi stessi, prima che a piangere sui (fisicamente) morti. Troppo spesso, invece, la «casa della festa» (o della semplice distrazione, superficialità, disavvedutezza) prevale, e con un giorno o due di pianto sui trapassati non cambiamo le nostre reali prospettive terrene ed eterne. 

L’apostolo Paolo ci esorta così: «Non offritevi come strumenti di ingiustizia al peccato, ma offritevi a Dio come vivi tornati dai morti e come strumenti di giustizia per Dio» (Lettera ai Romani 6:13). Rieccoci dunque all’esortazione di Gesù: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti, ma tu va ad annunciare il regno di Dio». Torniamo alla casa del Padre per servirlo con amore e rispetto, per non essere noi dei… «poveri morti!».

Valerio Marchi

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